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Hamburger: un formato di successo, avviato verso il futuro

Di carne, di pesce, vegetariano, ma non solo. L’hamburger sfida oggi i limiti della cucina e, da simbolo del junk food in stile americano diventa emblema dell’eccellenza e della sostenibilità alimentare.

Dentro e fuori dallo stereotipo

Un disco di carne macinata, paragonabile a una polpetta “oversize”, pressata a formare un medaglione e cotta sulla griglia o in padella. Questa, a grandi linee, è la definizione più immediata (qui la ricetta per fare l’hamburger a casa).

Una preparazione che spesso rende irriconoscibili gli ingredienti e che, secondo i più diffidenti, ben si presta a una composizione ambigua in cui l’eventuale scadente qualità dei prodotti può essere facilmente camuffata grazie all’aggiunta di insaporitori di vario genere e all’accostamento con salse e condimenti in grado di renderlo comunque appetibile.

Reso famoso dalla recente affermazione della moda dei fast food, questo alimento è rimasto per lungo tempo simbolo del junk food, oggetto della critica nei confronti della tradizione gastronomica a stelle e strisce e della globalizzazione alimentare favorita dalla diffusione del cibo di bassa qualità a basso costo.

Oggi tuttavia questa preparazione sta vivendo una nuova era, prendendosi la rivincita sulla discriminazione subita all’interno del panorama culinario mondiale. Grazie all’utilizzo di carne di qualità ma anche alla possibilità di impiegare ingredienti alternativi ad essa per la sua produzione, l’hamburger trova ormai spazio a pieno titolo nell’ambito della cucina più raffinata, declinandosi in molte versioni, non necessariamente carnivore.

Nè carne nè pesce

Oggi l’hamburger è molto più un medaglione di carne da mangiare in sostituzione della tradizionale bistecca, o da utilizzare per farcire morbidi buns (i panini al latte dalla consistenza unica tipici dei paesi anglosassoni).

Riabilitato nell’ambito di una cucina sempre più ricercata, rappresenta un formato strategico per introdurre sul mercato (e sulle tavole) ingredienti innovativi, salutari, sostenibili, tra cui alcune avanguardistiche alternative alla carne.

Negli ultimi anni è infatti avvenuta una grande diffusione di prodotti meat-free che, come si legge su ilfattoalimentare.it, rappresentano un mercato molto promettente, che secondo le previsioni degli analisti, entro il 2027 potrebbe superare il valore di 35,5 miliardi di dollari.

Un trend che vede al centro proprio i nuovi “burger” (che giustamente, in virtù della nuova composizione a base di legumi, verdure, tofu o soia ecc, perdono il prefisso “ham”).

Carne sì, ma sostenibile!

L’hamburger è attualmente al centro anche di una cambiamento della cultura gastronomica che, pur restando nell’ambito della produzione di alimenti di origine animale, sta spingendo sempre più verso la ricerca di fonti proteiche più sostenibili.

Ecco allora che compaiono in commercio burger a base di chiocciole o di carni più “green” rispetto a quella di manzo. Un esempio è quella di struzzo o di bisonte che, come spiega questo articolo, ha anche il vantaggio di presentare un profilo nutrizionale migliore di quello delle altri carni rosse (meno grassi, inclusi quelli saturi, alta qualità proteica, ricchezza di vitamine, minerali, acidi grassi Omega 3 e antiossidanti).

Anche “coltivato” (o sintetico)

Proprio l’hamburger è infine al centro di una rivoluzione tecnologica che, applicata all’alimentazione, sta portando alla nascita di novel food prodotti in laboratorio.

Tra questi c’è proprio la carne cosiddetta “sintetica” o meglio “coltivata” a partire da cellule staminali (da animali normalmente allevati per produrre carne e usare quelle cellule come ‘starter’ per far crescere la carne al di fuori dell’animale), che proprio nell’hamburger ha trovato una delle sue prime forme (il primo hamburger al mondo coltivato in laboratorio è stato presentato a Londra nel 2013).

Si tratta di carne a tutti gli effetti, con le medesime caratteristiche organolettiche e nutrizionali di quella ottenuta dagli animali allevati, ma con il vantaggio di ridurre i costi della produzione in termini di crudeltà verso gli animali stessi e di pressione ecologica causata dagli allevamenti.

Insomma, quella che sembrava fantascienza sta trasformandosi rapidamente in realtà e, nonostante i dibattiti etici attualmente in corso e la perplessità e la diffidenza ancora manifestate da gran parte dell’opinione pubblica, potrebbe risolvere il problema della fame del mondo ma anche contribuire a ridurre l’inquinamento e il depauperamento dell’ecosistema alla base del cambiamento climatico.

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