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Quando la famiglia diventa “Un complicato atto d’amore” nel libro di Miriam Toews

Ci siamo lasciati il 2018 alle spalle e con il mese di gennaio siamo pronti per iniziare una nuova avventura, un’incognita che ci incuriosisce e ci spaventa allo stesso tempo, come tutte le cose che non conosciamo. L’inizio di un nuovo anno diventa ogni volta il pretesto per stilare una lunga lista di buoni propositi che forse non porteremo mai a termine e che rimanderemo di giorno in giorno. Sogniamo viaggi e progettiamo partenze, cambiamo taglio di capelli, ci guardiamo allo specchio e ci promettiamo che quest’anno rispetteremo la dieta e non ci lasceremo tentare dai vari gelati e all you can eat di turno.
Ci piace progettare, prendere treni, aerei. Ci piace sognare di fuggire dalla giungla quotidiana per vivere anche pochi giorni nella nostra isola di pace, che sia una città del nord Europa che abbiamo sempre voluto visitare o un posticino che conosciamo solo noi al mare. Partiamo, ci lasciamo l’anno vecchio alle spalle e guardiamo avanti. A volte però sentiamo il bisogno di fermarci, di restare, di tornare a casa. Avvertiamo l’esigenza di ritornare nei posti del cuore, tra quelle mura che hanno visto la nostra prima caduta dal seggiolone, il nostro primo diario segreto, il primo amore, la prima risata, le prime lacrime e le prime piccole grandi vittorie. Torniamo a casa, lì dove sono custoditi segreti, paure, emozioni, ricordi, dolori e sorrisi. Lì dove, qualsiasi cosa succeda, ci sarà sempre qualcuno pronto ad aspettarci.
Questa volta vogliamo consigliarvi un libro che tratta proprio il tema della famiglia, ma lo fa  in modo molto particolare, scavando tra i ricordi di un’adolescente che pagina dopo pagina ci trascina nel suo mondo. Stiamo parlando del terzo romanzo della scrittrice canadese Miriam Toews, Un complicato atto d’amore, un libro di 290 pagine, diventato best seller in Canada, tradotto in quattordici lingue e acclamato a livello internazionale.
È stato finalista alla premiazione del “Scotiabank Giller Prize” e ha vinto il più prestigioso premio letterario del Canada, il “Governor General’s Award per la Fiction”. Dopo la prima pubblicazione del 2004, è stato ristampato nel 2017 dalla casa editrice Marcos Y Marcos, con la brillante traduzione di Monica Pareschi, e l’illustrazione in copertina di Laura Fanelli in cui viene rappresentata una ragazza che salta su un tappeto elastico, nel tentativo di arrivare sempre più in alto, mentre sta per sorgere il sole.
Per comprendere pienamente questo libro bisogna scavare nella biografia dell’autrice la quale riversa tra le pagine il suo trascorso. Miriam Toews è nata nel 1964 a Steinbach in Manitoba, in una comunità mennonita. L’essere nata e cresciuta in una comunità religiosa così chiusa e rigorosa l’ha sicuramente segnata e ne parla molto nei suoi romanzi, in cui pone al centro la famiglia e le difficoltà di vivere in un contesto in cui domina il fondamentalismo religioso che inevitabilmente plasma gli individui. Sono proprio queste le caratteristiche che ritroviamo nel romanzo, raccontate dalla scrittrice in modo umoristico, leggero, vivace e allo stesso tempo con una nota di tristezza.
“Le cose che non sappiamo di una persona sono quelle che la rendono umana, mi è venuto in mente tornando dai campi, e questo pensiero mi ha resa triste, ma triste in quel modo rassicurante che ha qualche volta la tristezza, quando ci dice bentornato in dodici lingue diverse”
Una rassicurante tristezza, è questa la sensazione che la protagonista del romanzo sembra vivere, una tristezza che è pronta a trasformarsi in rabbia e ribellione. Nomi, è una ragazzina di appena sedici anni, che vive in un posto sbagliato, in un piccolo villaggio mennonita, lontano dalla musica rock, dai pattini a rotelle, dalle luci newyorkesi e dall’adolescenza. È una gabbia per chi è adolescente e vorrebbe scoprire il mondo, quello vero, non quello in cui si devono rispettare regole assurde e si deve recitare una parte per “far contenti” i turisti americani che vogliono scattare qualche foto.
“Questo paese è così serio. Così silenzioso. Mi fa impazzire, il silenzio. Chissà se di silenzio si può morire. […] L’unica cosa che si sente di notte sono i tir che sfrecciano sulla statale per portare gli animali rogati a farsi trucidare. Vi consiglio di non guardare negli occhi quelle mucche. Qui la gente non vede l’ora di morire, sembra. È l’evento principale. […] Noi siamo mennoniti. Per quel che ne so, è la sotto-setta più sfigata a cui si possa appartenere a sedici anni”.
Nomi sogna una fuga, pur restando ancorata in quel microcosmo di assurdo rigore; avere il mal di mare in mare non è la stessa cosa di avere nostalgia di casa in casa propria. Non si sente a proprio agio in quello che sembra essere un set cinematografico, un paese fantasma, una sottospecie di isola che non c’è. Nomi cerca in tutti i modi di manifestare il suo dolore e la sua difficoltà di stare al mondo, cerca di attirare l’attenzione di chi le sta intorno sul suo malessere ma i suoi tentativi sembrano vani. Vorrebbe scappare, così come hanno fatto la madre e la sorella, ma c’è qualcosa che la trattiene: l’amore per il padre.
Ray è un insegnante e si presenta subito al lettore come un uomo devoto alle regole di vita che la comunità mennonita gli ha imposto. Pagina dopo pagina, però, ci accorgeremo che questo suo aspetto severo e rigoroso non è altro che una corazza, un’armatura, che indossa per essere considerato un uomo rispettabile, ma dentro ha un potpourri di emozioni, dolore e solitudine. Il complicato atto d’amore è proprio quello che Nomi fa verso il padre, scegliendo di rimanere con quell’uomo triste e solo che ha perso una figlia e la donna che amava. È un complicato atto d’amore che una ragazzina di soli 16 anni si sente di compiere verso quel che rimane della sua famiglia, è l’atto di  scegliere se rimanere o andarsene, e questo lo capiamo quando verso la fine del libro Nomi ripensa ai suoi discorsi con la sorella:
“Mi hai insegnato che certe persone se ne vanno e altre no e quelle che se ne vanno sono sempre più fiche di quelle che rimangono e io sono una di quelle che rimangono perché tu sei una di quelle che se ne sono andate e c’è un vecchio seduto in una casa vuota in giacca e cravatta che non ha più nessuno tranne me”
La voce narrante è quella della piccola protagonista sedicenne che scava nella sua coscienza e nella sua memoria per raccontarci piccoli ritagli di vita passata, ai quali si aggrappa disperatamente per cercare di capire come siano state possibili le scelte che hanno caratterizzato il suo il triste e grigio presente nel quale si sente sempre di più ingabbiata. Ci trascina inevitabilmente nel suo difficile cammino di crescita nel quale cerca il suo posto nel mondo, in quel microcosmo in cui è stata “obbligata” a vivere, nell’East Village, quel minuscolo paese finto, che sprofonda nelle praterie canadesi, nel quale lei si sente una piccola isola, sola, in mezzo ad una mare di follia. Una comunità, quella dei Mennoniti, in cui si cerca d far di tutto per preservarsi dal Male,  e per questo sono banditi il ballo, il fumo, il cinema, gli alcolici, il rock and roll, il trucco, i gioielli, il biliardo, e qualsiasi cosa procuri piacere, persino leggere libri che non siano religiosi.
“Per qualche oscura ragione potevamo guardare Batman, anche se combatteva contro le piante carnivore e il perfido Joker, dietro cui sapevamo che si nascondeva il Maligno. Non per niente il jolly è una carta da gioco. In teoria non avremmo dovuto guardare Vita da strega e Strega per amore per via della magia che era collegata al satanismo, ma li guardavamo lo stesso”
Tuttavia questa rigida comunità religiosa ha un lato nascosto, non è tutta preghiere e chiesa, ma è abitata anche da alcuni membri che conducono una vita poco in linea con le austere regole mennonite e che per questo sono stati scomunicati, uno di questi è ad esempio quello che chiamano il Pettine d’Oro, uno spacciatore, che Nomi descrive così: “un raro esempio di libero cittadino, completamente fuori dalla struttura della chiesa, che se ne fotteva di tutto e di tutti e non se ne andava. Era talmente al di là di ogni responsabilità o di colpa eccetera, che lui ed Eldon, un altro emarginato completo, nella loro lurida piccola roulotte in mezzo alle praterie potevano fare quello che gli pareva”.
Dal suo racconto leggero e a tratti anche umoristico, perché è proprio l’umorismo che riveste il ruolo di ancora di salvezza, emergono altri ragazzi che, come lei, cercano a loro modo di ribellarsi, e lo fanno in perfetto stile adolescenziale: andando in giro di notte in posti desolati, bevendo, fumando e facendo tutte quelle cose considerate “proibite” e che proprio per queste provocano un briciolo di piacere in un microcosmo bigotto in cui i Led Zeppelin devono essere ascoltati di nascosto e le ragazze non possono truccarsi, pena la scomunica. Nomi si innamora di Travis, con lui fuma, fa l’amore giù alle cave, resta ore ed ore stesa sull’erba a guarda il cielo ascoltando Lou Reed e fantasticando su un mondo a colori pur restano ancora in un mondo in bianco e nero.
Ognuno di noi è stato adolescente, ha provato sulla proprio pelle quella stranissima fase della vita in cui spesso la rabbia fa da padrona. Quando sei piccola e nasci in un determinato contesto, lo accetti, è naturale accettarlo perché tutti ti dicono che quella è l’unica verità possibile, non ti resta che far parte del tutto. Ma quando cresci e ti accorgi che quel tutto è in realtà il niente, allora ti ribelli, ti arrabbi, cerchi ogni possibile modo per scappare da quella sfera di cristallo che vorresti frantumare in mille piccoli pezzi. Salti sempre più in alto su un tappeto elastico sperando di raggiungere con un salto un altro mondo, meno stretto e opprimente, in cui puoi sentirti finalmente libera di essere e non di apparire.
Con la sua scrittura brillante, dolce, irriverente e leggera, Miriam Toews dà voce ad un personaggio estremamente fragile, che vorrebbe qualcosa di più del piccolo mondo in cui è nato, vorrebbe lasciarselo alle spalle ma decide di rimanere, sceglie di arredare quel tunnel buio che tanto le sta stretto. Decide di non abbandonare l’unica parte di famiglia che le è rimasta, quel padre così solo e triste, che passa le serate a fissare la strada nella speranza che sua moglie e sua figli ritornino. Il suo è un complicato atto d’amore, il più bell’atto d’amore che una figlia possa mai fare.
 
 
 
 

Annarita Correra

Mi chiamo Annarita Correra, ho 28 anni, sono una giornalista pubblicista, una copywriter, content creator e cantastorie. Credo che la bellezza salverà il mondo e per questo la cerco e la inseguo nella mia terra, la più bella del mondo. L’amore per la letteratura mi ha portato a conseguire la laurea triennale in Lettere Moderne e quella magistrale in Filologia Moderna. Ho collaborato con riviste online culturali, raccontando con interviste e reportage le bellezze pugliesi. La mia avventura con Foggia Reporter é iniziata cinque anni fa. Da due anni curo la linea editoriale del giornale, cercando di raccontare la città e la sua provincia in modo inedito, dando voce e spazio alla cultura e alle nostre radici. Scrivo e creo contenuti digitali, gestisco la pagina Instagram del giornale raccogliendo e raccontando le immagini più belle delle nostra terra.

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