Briganti in Capitanata: eroi ribelli o violenti assassini?
A metà dell’Ottocento il fenomeno del brigantaggio era particolarmente diffuso nel Mezzogiorno d’Italia. Rapine e omicidi di bande armate ad opera dei briganti erano all’ordine del giorno anche in Capitanata.
Dopo l’Unità d’Italia, proclamata con il plebiscito del 21 ottobre 1860 (ma ufficializzata il 17 marzo 1861), il nostro Paese e più precisamente il Sud Italia, si preparava ad accogliere il brigantaggio.
In quel periodo il Meridione viveva in un profondo stato di povertà e degrado. Il dissolvimento dell’esercito borbonico spinse molti sottufficiali e soldati a darsi al brigantaggio.
Oltre agli ex soldati, furono principalmente contadini scontenti e arrabbiati per le mancate promesse garibaldine, a formare veri e propri eserciti di briganti.
Con il termine brigantaggio si fa riferimento ad una violenta forma di banditismo caratterizzata spesso da azioni riprovevoli a scopo di rapina ed estorsione.
Nel corso dei secoli la figura del brigante è stata però idealizzata e si è sempre creata sempre tanta confusione quando si cercava di definire lo spirito che animava le bande armate del Sud Italia. Eroi o assassini? Padri dei nostri partigiani o fautori di disordine e caos?
Il brigante viene visto una volta come bandito feroce e sanguinario, un’altra come eroe leggendario che si schiera dalla parte dei più deboli.
I briganti catturati venivano mostrati nelle piazze, come monito per tutti: un avvertimento a non seguire la loro strada, pena la morte. Era una vera e propria guerra, di sangue, ideali, violenza, difesa, ribellione e resistenza.
Alla fine del 1861 l’economia della Capitanata, come quella di altre aree del Sud Italia, viveva un momento di grave crisi. I centri del Mezzogiorno vivevano un profondo ritardo economico e culturale rispetto a quelli del Nord e il clima che si respirava diventava sempre più pesante.
La situazione sociale, in Capitanata, spinse molti uomini, donne e giovani ragazzi alla ribellione, e alcuni di questi confluirono nelle fila dei briganti.
Tutti potevano darsi ad una storia di vera e propria ‘caccia ai briganti’, venivano infatti stabiliti dei premi in denaro per ogni brigante arrestato o ucciso.
Nel libro di Leonardo Scopece, Storia di Foggia, si legge che il fenomeno del brigantaggio fu favorito dalla Curia romana e dalla corte borbonica, che fecero leva sulle disattese aspirazioni di distribuzione delle terre, incoraggiando così l’intervento violento e armato da parte dei meridionali.
Di particolare gravità fu la rivolta di San Giovanni Rotondo del 23 ottobre 1860. La folla, accecata dal furore e dalla rabbia, uccise 24 uomini, tra le persone più in vista del paese.
La polizia iniziò così a perseguitare i briganti in tutta la provincia, riservando particolare attenzione anche a coloro i quali mostravano di aver espresso, in più occasioni, parere favorevole al reinsediamento del sovrano borbonico.
Un esempio eclatante fu l’arresto del vescovo di Foggia, Mons. Frascolla, accusato di essere nemico dell’Unità d’Italia. Effettivamente la delusione che si avvertiva tra la gente venne strumentalizzata dai sovrani per poter riprendersi in mano il regno.
La delusione delle masse contadine, soprattutto, seguita all’iniziale entusiasmo nei confronti di Garibaldi, era stata abilmente strumentalizzata da Francesco II di Borbone che, dopo la sconfitta, aveva pensato di servirsi dei briganti per poter tornare a regnare.
Chi erano i briganti della Capitanata?
A capo dei briganti del nostro territorio vi erano personaggi come Carmine Crocco, soldato dell’esercito borbonico, disertore e malavitoso.
Entrato nelle truppe garibladine dopo esser riuscito a scampare al carcere, decise poi di darsi alla macchia fondando un vero e proprio battaglione di briganti.
Crocco, come altri briganti di Capitanata, si avvicinò ad ambienti filo borbonici, diventando il braccio destro di personaggi importanti.
Crocco era conosciuto da tutti come il capo indiscusso delle bande del Vulture, ma sotto il suo controllo agivano anche le bande dell’Irpinia e della Capitanata. Fu sicuramente uno dei più temuti e ricercati fuorilegge, guadagnandosi appellativi come “Generale dei Briganti”.
Arrestato nel 1864 dalla gendarmeria dello stato pontificio, dove aveva tentato di trovar riparo, venne processato nel 1870 da un tribunale italiano. Fu condannato a morte, poi commutata in ergastolo nel carcere di Portoferraio.
Un altro personaggio che merita di essere menzionato è sicuramente il brigante Gaetano Vardarelli (il cui vero cognome era Meomartino) nativo di Celenza Valfortore. Della banda del Vardarelli se ne trova traccia persino negli archivi napoleonici in Francia.
La banda dei Vardarelli veniva chiamata così perché la famiglia dei capo banda esercitava l’arte del “vardaro” che in dialetto indica gli artigiani che producono o riparano le selle. Nella banda capeggiata da don Gaetano c’erano anche i suoi due fratelli Geremia e Giovanni, due donne, di cui una era sua sorella e altri ragazzi e uomini. Complessivamente erano circa 50 elementi.
I Vardarelli furono i protagonisti assoluti del cosiddetto “primo brigantaggio”. Tante le imprese e le uccisioni imputate alla banda capeggiata dal “Re della Puglia, così si firmava Gaetano Vardarelli, ucciso, dopo esser stato attirato in un vero e proprio tranello, in un paese molisano a confine con la Capitanata.
In provincia di Foggia, nella seconda metà dell’800, arrivarono ad operare circa 800 briganti. Oltre alla banda di Crocco, fino al 1866, in Capitanata, operarono anche altre bande: quelle di Menotti, Varanelli, Bruciapaese (fucilato a Foggia il 6 marzo 1863), Mansueto, Ninco Nanco, Michele Caruso, Romano e Schiavone.
Un fenomeno, quello del brigantaggio, che segnó profondamente il Sud Italia, la nostra provincia, la nostra amara e amata terra.
Fonti: Storia di Foggia di Leonardo Scopece; Reazione e brigantaggio in Capitanata di Alessandro Capone; corrieresalentino.it