La bici, il piacere di una pedalata

Torniamo indietro nel tempo, a quando ancora il frastuono dei motori non era così prepotente
Il motore, ti ha messo alla berlina, ti ha ucciso.
Il tuo debutto nel 1866 a Foggia, quando la diligenza impiegava una stagione per raggiungere Vieste o il Gargano, tragitti relativamente lunghi.
Quando nascesti tu, i giovani dell’alta società foggiana furono entusiasti delle raggiate ruote, enormi e disarmoniche.
Possedere la bici era uno chic a cui nessun gagà di Foggia poteva rinunciare. Viceversa i poveri dovevano limitarsi a guardarla ad osservare la continua incessante evoluzione perché era un miraggio, un mezzo inaccessibile per le loro tasche.
Nel 1900 la comparsa dell’automobile costrinse i ricchi ad abbandonare il manubrio per il volante; i tempi imponevano, il nuovo acquisto, e mentre i vari duchi ed i vari marchesi, in cassetta alle rudimentali auto, si trasformavano in sportivi dagli occhiali affumicati e dallo spolverino bianco mostrando le auto in piazza Cavour, tu bicicletta divenisti allora, ma solo allora, il mezzo di trasporto popolare e trionfasti per decenni. Fosti la gioia dei contadini, degli operai, degli impiegati, complice servizievole di amori sbocciati in una gita collettiva fuori porta di città nelle campagne del Tavoliere.
Fra il 1920 ed il 1930, le gesta dei campioni, di Girardengo, Binda, di Guerra e Bartali, avevano reso di dominio pubblico le infinite possibilità della bicicletta.
Nel 1939 in giro per l’Italia, si contavano ben sette milioni di biciclette effettive, consistenti, reali lungo la Valle Padana, il Tavoliere delle Puglie e l’Adriatico, sciamavano allegri ciclisti fischiettanti al suono dei gioiosi campanelli. Era la festa della gioventù, era la fiera della spensieratezza.
Vennero però le piccole cilindrate ed il mondo automobilistico e quello motociclistico bruciarono le tappe in quanto la gente incominciava a impigrirsi. Pochi avevano voglia di muoversi a spese delle proprie gambe e le utilitarie dichiararono guerra alla bicicletta. La seconda guerra mondiale proibì la benzina e l’uso dell’automobile e riapparve d’incanto lo chic della bici cromata, aereodinamica e superleggera.
Il cambio di velocità entrò nell’uso corrente e non ci fu casa dove la bici non brillasse, tutta lucida e policroma, tanto leggera da poterla prendere con un dito.
Finita la guerra, ognuno tornò al motore. Nacquero quindi i velomotori, le motorette, sfreccianti da ogni dove. E mentre le strade cittadine ed i sentieri di campagna frastornati da rombante petulanza di migliaia di motorini, la bicicletta sentì calare su di se l’ombra del tramonto.
I giovani continuavano ad entusiasmarsi per Coppi e Bartali, per Petrucci e per Albani e correvano in falangi per vederli passare, ma non si andava più pedalando ma a cavallo di una vespa, di una lambretta o una isomoto. C’è solo da fare una considerazione.
Se gli uomini pensassero solo quando siano dannosi alla salute i comodi della motorizzazione, e quanto invece sia utile e igienica una bella pedalata ogni tanto, per viale Ofanto, per Corso Giannone, la Villa Comunale e la Stazione.
A cura di Ettore Braglia