Aumentano gli occupati mentre diminuiscono disoccupati ed inattivi in Puglia
Aumentano gli occupati mentre diminuiscono i disoccupati e gli inattivi
in Puglia. È quanto emerge dal nuovo studio condotto dall’Osservatorio
economico Aforisma, diretto da *Davide* *Stasi*.
L’aumento del numero degli occupati, nel corso del 2022, di ben 60mila
unità (da 1.207.000 a 1.267.000) si associa alla riduzione del numero
dei disoccupati di 31mila unità (da 205mila a 174mila) e di quello degli
inattivi di 49mila unità (da 1.140.000 a 1.091.000). Il tasso di
occupazione (forbice 15-64 anni) sale dal 54,8 per cento al 56,3; mentre
quello di disoccupazione scende dal 14,8 per cento al 12,3 e quello di
inattività (forbice 15-64 anni) dal 45,2 per cento al 43,7.
I dipendenti in Puglia sono 965mila, pari al 76 per cento degli
occupati, mentre gli indipendenti sono 301mila (pari al 24 per cento). La maggior
parte degli occupati lavora nel settore dei servizi (679mila); segue il
commercio (193mila); l’industria (182mila), l’agricoltura (108mila) e le
costruzioni (104mila).
«Si tratta – spiega Davide Stasi – di dati positivi che, però, non si
traducono in un miglioramento dei livelli di benessere della nostra
società. Anzi, spesso celano situazioni di precariato e sfruttamento.
Per questo risulta importante affrontare il tema della giusta retribuzione e
salario minimo. Nel nostro ordinamento, infatti, non esiste un livello
minimo di paghe fissato per legge, ma l’articolo 36 della Costituzione
riconosce il diritto, per il lavoratore, ad una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad
assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Tale articolo va letto unitamente all’articolo 39 della Costituzione che
attribuisce ai sindacati, previa registrazione, il potere di stipulare
contratti collettivi di lavoro vincolanti per tutti i lavoratori
appartenenti alla categoria cui il contratto si riferisce e ciò da parte
di una delegazione unitaria di tutti i sindacati registrati, ognuno
rappresentato in proporzione ai propri iscritti. La mancata attuazione
di tale ultima previsione costituzionale ha determinato due criticità: la
mancata estensione nei confronti di tutti i lavoratori appartenenti alla
medesima categoria dell’efficacia dei contratti collettivi e una
proliferazione degli stessi».
Secondo l’ultimo Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione
collettiva del Cnel, risultano depositati in archivio 946 Ccnl per i
lavoratori dipendenti nel settore privato, 18 Ccnl per i lavoratori
dipendenti nel settore pubblico, 12 Ccnl per i lavoratori
parasubordinati e collaboratori, 31 accordi economici collettivi stipulati per alcune
categorie di lavoratori autonomi (dati aggiornati al 7 novembre scorso).
«Sotto il primo profilo – fa notare Stasi – alla mancanza di una
efficacia generalizzata dei contratti collettivi ha sopperito nel corso degli anni
una consolidata giurisprudenza secondo cui i minimi tabellari stabiliti
nei Ccnl sono applicabili anche alle imprese e ai lavoratori che non hanno
sottoscritto alcun contratto collettivo (tra le altre, Cassazione 31
gennaio 2012, numero 1415; Cassazione 4 dicembre 2013, numero 27138;
Cassazione 2 agosto 2018, numero 20452; Cassazione 30 ottobre 2019,
numero 27917). In Italia, dunque, trovano applicazione, per i relativi settori,
i livelli minimi di retribuzione stabiliti dai contratti collettivi
nazionali per ciascuna qualifica e mansione. Vi sono, tuttavia, settori,
qualifiche e mansioni che possono risultare non coperti dalla contrattazione
collettiva. Per quanto riguarda il secondo profilo – continua Stasi – l’elevato
numero di Ccnl ha dato luogo al fenomeno del cosiddetto dumping contrattuale,
vale a dire l’applicazione di contratti firmati da organizzazioni datoriali e
sindacali che non risultano maggiormente rappresentative e che applicano
minimi tabellari più bassi. Tra le più recenti proposte di legge, si
segnalano gli atti camerali numero 141 (Istituzione del salario minimo
legale), numero 210 (Disposizioni in materia di determinazione della
retribuzione minima applicabile ai lavoratori del settore privato),
numero 216 (Norme in materia di giusta retribuzione, salario minimo e
rappresentanza sindacale), numero 306 (Disposizioni in materia di
salario minimo e di rappresentanza delle parti sociali nella contrattazione
collettiva), numero 432 (Disposizioni concernenti la determinazione
della retribuzione proporzionata e sufficiente dei lavoratori) e numero 1053
(Istituzione della retribuzione oraria minima) che recano norme in
attuazione dell’articolo 36 della Costituzione. Ben quattro delle sei
proposte di legge (141, 210, 306 e 1053) fanno espresso riferimento alla
direttiva europea 2022/2041 del Parlamento europeo e del Consiglio del
19 ottobre 2022 relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea, che
deve essere recepita entro il 14 novembre 2024. La direttiva non
configura l’obbligo per gli Stati membri di introdurre un salario minimo legale,
laddove la formazione dei salari sia garantita esclusivamente mediante
contratti collettivi, né quello di dichiarare un contratto collettivo
universalmente applicabile».
Per Stasi, «il salario minimo può essere stabilito per legge (salario
minimo legale), dalla contrattazione collettiva, o dalla combinazione
della fonte normativa con la contrattazione collettiva. Attualmente, il
salario minimo esiste in tutti gli Stati membri dell’Unione europea: in 21 Paesi
esistono salari minimi legali, mentre in 6 Stati membri (Danimarca,
Italia, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia) la protezione del salario minimo è
fornita esclusivamente dai contratti collettivi. Obiettivo della
direttiva non è la definizione di un salario minimo unico per tutti gli Stati membri,
quanto piuttosto quello di garantire l’adeguatezza dei salari minimi e
condizioni di vita e di lavoro dignitose per i lavoratori europei, nel
rispetto delle specificità di ogni ordinamento interno e favorendo al
contempo il dialogo tra le parti sociali. La direttiva interviene
principalmente nei seguenti ambiti: adeguatezza dei salari minimi
legali; promozione della contrattazione collettiva sulla determinazione dei
salari; accesso effettivo dei lavoratori alla tutela garantita dal salario
minimo; istituzione di un sistema di monitoraggio. La direttiva – chiosa Stasi –
chiede agli Stati membri in cui sono previsti salari minimi legali di
istituire le necessarie procedure per la loro determinazione ed il loro
aggiornamento, sulla base di criteri che ne assicurino l’adeguatezza, al fine di
conseguire un tenore di vita dignitoso, ridurre la povertà lavorativa, promuovere
la coesione sociale e una convergenza sociale verso l’alto, nonché ridurre il
divario retributivo di genere. I criteri per tale aggiornamento, che deve
avvenire almeno ogni due anni (quattro per gli Stati che ricorrono ad un
meccanismo di indicizzazione automatica) con il coinvolgimento delle parti
sociali, comprendono almeno il potere d’acquisto dei salari minimi legali, tenuto conto del
costo della vita; il livello generale dei salari e la loro distribuzione; il
tasso di crescita dei salari; i livelli e l’andamento nazionali a lungo
termine della produttività».